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Il Papa in Iraq: messaggio da un paese in subbuglio

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Questo articolo racconta delle più recenti sofferenze dell’Iraq, mettendo in luce il valore ancora più importante del messaggio universale contro la guerra lanciato da Papa Francesco durante la sua recente visita in quella terra. Allo stesso tempo, Jabbar spiega però che alla radice dei mali di quella terra sta la mancanza di pari diritti e opportunità tra gli iracheni, e che ogni soluzione geo-politica che si basa su logiche di spartizione del potere lungo linee confessionali e etniche è destinata a continuare a produrre disastri. I movimenti popolari di protesta contro lo status quo che si sono diffusi soprattutto a partire dal 2019 sono la vera speranza di quel Paese.

Adel Jabbar è sociologo e saggista nell’ambito degli studi interculturali e delle tematiche migratorie. Attento osservatore delle dinamiche storico-geopoltiche del Medio Oriente, ha promosso numerosi progetti culturali e rassegne letterarie, artistiche e cinematografiche. Di origini irachene, vive e lavora in Italia da molti anni.

La decisione di Papa Francesco di compiere una visita in terra mesopotamica richiede un’analisi attenta alla luce della complessità delle dinamiche geopolitiche del Vicino e Medio Oriente.

Il Pontefice si è recato in un’area che è tuttora teatro di scontro geopolitico, in cui sono presenti eserciti di potenze straniere invisi alle popolazioni locali, in cui il terrorismo di matrice transnazionale è quotidianamente all’opera, e i duri contrasti tra diverse fazioni sono spesso sostenuti da attori internazionali grandi, medi, piccoli e piccolissimi. Nonostante tutto ciò, il ‘capo’ dello Stato del Vaticano ha voluto portare a termine una visita importante.

Dopo l’euforia mediatica e dopo che sono state dette molte cose e sono stati fatti molti commenti riguardo al viaggio del Sommo Pontefice, vorrei richiamare l’attenzione su un aspetto relativo ai pronunciamenti del Papa durante le diverse tappe del suo viaggio.

Esso è di natura politica e riguarda la critica alla pratica della guerra, in quanto causa principale delle gravi condizioni in cui vivono molte delle popolazioni del mondo. Il Papa ha più volte sottolineato come la guerra sia un atto di sopraffazione. Ciò trova una dimostrazione chiara e drammatica in Iraq, un paese strategico, ricco non solo di materie prime, bensì anche di risorse umane e di un immenso patrimonio storico e culturale, che ha subito due guerre scatenate in base a delle eclatanti e ignobili bugie, quali la storia dei neonati nelle incubatrici gettati a terra dai soldati iracheni in Kuwait nel 1991. Episodio raccontato davanti al congresso degli Stati Uniti da una presunta infermiera, rivelatasi successivamente la figlia quindicenne dell’ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti, addestrata da un’agenzia americana di pubbliche relazioni. Anche per la guerra del 2003 si è fatto di nuovo ricorso ad una menzogna, ovvero la storia delle armi di sterminio di massa, riportata con tanto di provetta tenuta in mano dall’allora segretario di stato Colin Powell. Queste sì che possono essere definite la madre delle odierne fake-news! Come si può evincere dalla seconda puntata di una serie di quattro documentari dal titolo “Iraq – la distruzione di una nazione” trasmessa il 3 marzo 2021 sul canale TV Rai Storia, tali bugie sono ormai riconosciute come tali perfino da diversi esponenti delle Nazioni Unite coinvolti nei fatti dell’epoca, quali Denis Halliday, coordinatore degli aiuti umanitari ONU, e Hans von Sponeck, coordinatore del piano sanitario ONU in Iraq. Il risultato di tale disinformazione è stato da un lato l’appoggio di alcuni settori dell’opinione pubblica mondiale all’intervento militare, e dall’altra una popolazione irachena terrorizzata e brutalmente devastata. I responsabili di questi crimini di guerra, non solo rimangono fino ad oggi impuniti, bensì continuano a diffondere le loro menzogne, e i loro successori proseguono perpetuando le medesime azioni distruttrici in altri contesti.

Le dichiarazioni del Papa in Iraq sono richiami a coloro che fabbricano e vendono armi ed elaborano piani di guerra, mettendoli di fronte alle fatali conseguenze del loro agire – che semina morte, macerie, profughi, rancore, disperazione, frantumazione sociale e instabilità politica.

Dal 2003, anno dell’invasione militare dell’Iraq da parte dell’alleanza anglo-americana, il Paese ha subito numerose fratture e frammentazioni. In esso regna ormai un disordine generale, la corruzione è pratica sistematica, e varie milizie con diverse denominazioni spadroneggiano sull’intero territorio. Queste sono solo alcune delle conseguenze drammatiche dell’invasione di quest’antica terra da parte degli USA e del Regno Unito, terra già danneggiata da anni di governo dispotico del clan di Saddam Hussein, seguito dal conflitto militare con l’Iran (1980-1988), quindi dalla prima guerra del Golfo scoppiata a seguito dell’occupazione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno (1991), e infine da anni di embargo da parte degli USA (1990-2003), un embargo che è costato la vita a più di un milione di iracheni, tra cui 500.000 bambini, per finire con l’occupazione del Paese dal 2003 e l’instaurazione di un assetto politico volutamente instabile.

Larghe fasce della popolazione di questo paese estenuato, martoriato ed esasperato hanno deciso infine di rioccupare lo spazio pubblico da protagoniste a partire dal 2011, facendo nascere importanti movimenti di protesta contro lo status quo, rivendicando diritti fondamentali per la propria gente, diritti fino ad ora negati da parte dei diversi potentati clanistico-familistico e confessionali.

Dall’ottobre del 2019, le coraggiose proteste pacifiche di questi movimenti si sono ulteriormente intensificate, malgrado la feroce repressione da parte degli apparati di “sicurezza” e delle varie milizie. Essi continuano a denunciare instancabilmente la corruzione e l’assenza dello stato, in quanto garante dell’ordine pubblico e dei diritti fondamentali dei suoi cittadini. I giovani manifestanti, in gran parte appartenenti alla popolazione di confessione sciita, rivolgono forti critiche ai gestori degli affari pubblici, anche essi, tra l’altro, prevalentemente sciiti, il ché confuta  una certa lettura culturalista che vuole fare credere che le dinamiche socio-politiche della regione abbiano origine esclusivamente da appartenenze religiose e confessionali. I movimenti giovanili in Iraq hanno evidenziando l’originaria malformazione dell’assetto politico nato dall’occupazione statunitense, basato su una visione confessionalizzante e etnicizzante, in cui il potere viene esercitato da satrapi locali e dinastie familiari camuffate in abiti talari, “turbanti religiosi” e “turbanti tribali”.

Il potere di fatto è gestito da combriccole che si sono spartite il Paese e le sue ricchezze creando feudi personali. Il fattore principale, responsabile di questa situazione disastrosa, è secondo molti analisti e osservatori dell’area la stessa “Costituzione” del 2005, basata su una logica di spartizione del potere lungo linee confessionali e etniche.

Questo quadro non è più né tollerabile né sostenibile; pertanto, la pratica politica necessita una revisione radicale al fine di cambiare l’assetto istituzionale, tenendo presente l’importanza della partecipazione di tutte le forze sociali e politiche che da tempo rivendicano la riforma delle istituzioni, e pretendono una nuova carta costituzionale che metta al centro la concezione dei diritti di cittadinanza e delle pari opportunità tra tutti gli iracheni, donne e uomini, senza distinzione alcuna.

Per comprendere gli effetti della visita di Papa Francesco sull’aggrovigliata e spinosa situazione del “Paese dei due fiumi” sarà dunque necessario continuare ad osservare l’evoluzione politica e le prossime mosse dei molteplici attori sia interni che esterni.

18 marzo 2021.

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